Alla sua donna si riannoda a tutto il movimento cosí importante dello Zibaldone di questi mesi del 1823, che va considerato in relazione non solo alle Operette morali, ma anche a tutta l’esperienza leopardiana, sin nello stesso valore della prosa dello Zibaldone.
Lo Zibaldone ha infatti non solo valore di documento di pensiero, ma anche di elaborazione in sé e per sé, una sua forza di prosa.
La zona piú interessante dello Zibaldone del ’23 va dall’agosto al novembre. Come ho già accennato, dopo l’interruzione del ’22, e le poche pagine scritte a Roma, nel ’23, e dopo il ritorno a Recanati, nel maggio del ’23, compaiono tra il maggio e il luglio pensieri importanti, ma assai sporadici in mezzo a prevalenti notazioni di carattere linguistico in forma molto spesso perfino di scheda. Solo in seguito lo Zibaldone prende una consistenza di nuovo maggiore e, tra l’agosto e il novembre, comincia a esprimere una nuova crisi e dei cambiamenti di posizione molto importanti, i cui sviluppi continuano e si attuano alacremente dentro le Operette morali, né in quelle si esauriscono, riprendendo poi negli anni successivi di nuovo nello Zibaldone.
Che questa fase dello Zibaldone apra un nuovo momento di crisi molto importante nel pensiero e nell’esperienza del Leopardi, con una elaborazione tutt’altro che improvvisata e dilettantesca, ma acuta e sottile in punti molto delicati delle posizioni leopardiane, è stato visto con molta finezza dal Luporini[1].
Si è già notato come le stesse canzoni del ’21-22, e specialmente l’ultima zona tra Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, avessero consumato i margini di certi punti fondamentali del sistema della natura su cui Leopardi aveva precedentemente costruito tutta la sua attività. Ma senza dubbio in questa nuova fase dello Zibaldone la crisi di logoramento dell’elemento ottimistico, presente prima nel pensiero leopardiano (Leopardi nel periodo precedente aveva soprattutto approfondito un pessimismo di carattere storico legato all’antitesi natura-ragione, antichi-moderni, dove la vita degli antichi era vista ottimisticamente legata alla fervida vitale natura), viene accentuandosi in vario modo, per approdare a un pessimismo tanto piú radicale, che costruirà la spina dorsale di tutta la sua successiva attività filosofica e poetica.
Prima della comparsa della zona piú intensa di pensieri filosofici dell’agosto-novembre, nello Zibaldone ci sono tuttavia almeno due pensieri sulla ragione assai notevoli (uno del 21 maggio e l’altro del 12 agosto), come anticipo importante dello spostamento successivo dall’antitesi natura-ragione alla identificazione della natura come nemica e matrigna (non come amica e madre dell’uomo) e alla riconsiderazione della ragione non piú come corruttrice e causa dell’infelicità presente, ma come valida arma per quel tanto di positivamente negativo, rispetto a frivole e false credenze filosofiche che essa può operare: per cui la nuova contrapposizione sarà tra natura e uomo, o meglio tra la vita piena a cui l’uomo aspira e l’esistenza in cui è posta la natura, che sta dalla parte del male, non della vita. La ragione ha essenziale valore negativo (e questo è qui chiaramente anticipato), in quanto ha una funzione formidabile di distruzione di errori, di falsi sistemi, di miti, di frivole speranze, per cui l’uso del suo strumento, sebbene qui appaia ancora timidamente, permetterà piú tardi a Leopardi di giungere a quel tanto di eroicamente e desolatamente positivo su cui fondare la solidarietà tra gli uomini, ma sulla base chiara della consapevolezza da parte di essi della loro miseria, della loro infelicità, dell’ostilità della natura, della persecuzione da parte dei poteri superiori.
Il primo pensiero insiste appunto sulla grande forza che ha la ragione non nel costruire sistemi complicati e artificiosi («poemi della ragione» come qualche volta dice svalutandoli Leopardi), ma nel distruggere gli errori, le sistemazioni illusorie degli uomini[2].
L’altro pensiero dice:
Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. [3171-3172][3]
È un pensiero molto importante, tra le varie offerte di questo periodo, perché fa capire come piú tardi, consumatasi la positività del concetto di natura, il Leopardi potesse riprendere, con piú fiducia, quella nozione di ragione che gli era apparsa precedentemente come la causa di tutte le rovine dell’uomo e che finirà per apparirgli invece come l’unica arma che l’uomo ha nelle sue mani, non per costruire miti e sistemi irrisori, ma per arrivare a quella nudità, a quella consapevolezza coraggiosa della vera condizione umana che diventerà l’unica base di ogni possibile costruzione futura, anche se minima, faticosa e tormentosa.
Uno dei punti piú importanti di questo filone filosofico è anzitutto il problema, sempre piú assillante per Leopardi, della felicità e del piacere: felicità e piacere che in questo periodo vengono prevalendo sul motivo dell’eroismo, delle generose, eroiche e poetiche illusioni e prendendo una funzione di meta cui l’uomo tende perché egli ha appunto per suo istinto fondamentale il desiderio della felicità e del piacere, considerati naturalmente in una prospettiva tutta umana e tutta terrena, materialistica, legata cioè al sensismo e al materialismo sempre piú crescente. Su questo tema si possono ricordare almeno due pensieri fondamentali.
Il primo, del 23 settembre 1823, è molto lungo e complesso, espresso in una prosa consequenziale, densa, sicura, ferrea, purtroppo qui citabile solo in parte. Esso verte sulla speranza dell’aldilà:
Le speranze che dà all’uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova impediti quaggiú i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensí, ma: 1. che l’uomo non può comprendere né immaginare né pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione; 2. ch’egli sa bene di non poter mai né concepire né immaginare né averne veruna idea finché gli durerà questa vita; 3. ch’egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiú gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiú le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocché esistiamo. [3497-3498]
E su questa via il Leopardi giungerà a dire che la felicità ultraterrena è cosí lontana dai veri bisogni, dalle vere necessità degli uomini come sarebbe appunto la felicità di un cavallo per un uomo, o quella di una pianta per un animale, cioè non corrisponde alla natura, alla tendenza dell’uomo che vuole la felicità concreta, in questa vita mortale. Il pensiero si dispiega successivamente con alcune altre osservazioni molto importanti:
[...] la felicità ch’ei [l’uomo] desidera è cosí terrena. Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perché s’è dichiarato altrove), quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiú, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito dei viventi. [3500]
Stabilito che l’uomo desidera tutte cose terrene e materiali, persino in quello slancio verso l’infinito che, come dice il Leopardi, non si trova quaggiú, ma che noi vogliamo usufruire quaggiú nella vita mortale, egli dirà che il cristianesimo all’uomo
[...] promette la beatitudine di una tutt’altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch’ella è sommamente e totalmente e piú ch’ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch’ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l’uomo non può né collo intelletto né colla immaginazione né con veruna facoltà né veruna sorta d’idee oltrepassare d’un sol punto la materia, e s’egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un’idea qualunque di cosa non materiale, s’inganna del tutto; cosí egli non può col desiderio passare d’un sol punto i limiti della materia, né desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch’ei prova [...]. [3503]
Insistendo su questa prospettiva di un’altra realtà, di un’altra vita, cosí diversa che l’uomo non può trovarci nessuna consolazione, il poeta dice che l’uomo desidera anche nel futuro, anche nei suoi sogni, anche nei suoi deliri, pur sempre una felicità usufruibile per lui, una felicità congeniale alla sua natura, sicché (continua):
[...] oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e cosí da altre religioni), cosí misera e scarsa com’ella è pure, doveva parere molto piú desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto piú atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra.
Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perché? perché ci s’insegna che nell’inferno (e cosí nel Purgatorio) avrà luogo la pena del senso. [3506]
Il Leopardi in sostanza dice che la promessa di felicità, corrispondente all’idea cristiana del paradiso, è troppo diversa, smateriata, è troppo fuori dalle condizioni terrene, sicché coloro che proposero le pene dell’inferno, per correggere ed educare gli uomini al bene, alla giustizia, agirono piú logicamente e coerentemente (proprio in quanto dettero a questa prospettiva di pena un carattere sensibile), di coloro che proposero l’idea del paradiso che non suscita nessuna possibilità di piacere neppure raggiungibile con l’immaginazione; tanto che il Leopardi giungerà, con una interpretazione discutibile, a sostenere che «Dante che riesce a spaventar dell’inferno, non riesce né anche poeticamente parlando, a invogliare punto del Paradiso» [3507][4].
Questa diagnosi estremamente densa della condizione dell’uomo, che sottoposto alla persecuzione della fortuna, rigettato, «ributtato dal mondo», come dice con parole energiche e quasi fisiche, infelice e misero, non può trovare alcuna vera consolazione nella speranza dell’aldilà, è estremamente importante per ribadire che le prospettive leopardiane sono terrene, umane, mondane; è il quaggiú che gli preme, senza possibilità di uscita diversa dai limiti della vita dell’uomo, limiti sensistici e materialistici. Questo è il fondo di pessimismo estremo sulla condizione tragica dell’uomo che, infelice e misero, vive per la morte e per il nulla: pessimismo che tocca toni nichilistici che hanno una qualche consonanza con gli atteggiamenti esistenzialistici che affioreranno con Kierkegaard una ventina d’anni dopo nella cultura europea, rispetto ai quali però il Leopardi si è volontariamente preclusa ogni evasione religiosa, ogni appello al divino nato dalla disperazione e dall’angoscia; la via del Leopardi è assolutamente materialistica e atea ed egli la percorrerà fino in fondo.
Il secondo pensiero, del 18 novembre, con uno scatto polemico contro coloro che, teologi o filosofi spiritualistici, vogliono consolare gli uomini dicendo che le cose di questa vita hanno poca importanza, afferma:
Quelli che ci dicono che le cose di questa vita, la gloria, le ricchezze e l’altre illusioni umane, beni o mali ec. nulla importano, convien che ci mostrino delle altre cose le quali importino veramente. Finché non faranno questo, noi, malgrado i loro argomenti, e la nostra esperienza, ci attaccheremo sempre alle cose che non importano, perciò appunto che nulla importa, e quindi nulla è che meriti piú di loro il nostro attaccamento e sia piú degno di occuparci. E cosí facendo, avrem sempre ragione, anche, anzi appunto, parlando filosoficamente. [3891][5]
Nella crisi profonda del suo pensiero, il Leopardi in questo periodo traccia chiaramente la sua prospettiva proprio con questo scarto di fronte a possibilità di doppia esistenza, di doppia realtà, della vita religiosa: donde l’errore in cui sono caduti alcuni interpreti anche in sede filosofica, per esempio il Vossler, che parlò del Leopardi poeta religioso del mistero e del nulla[6], o lo stesso Luporini che, accennando a una consonanza in questo caso piú positiva con posizioni esistenzialistiche, scrisse in un saggio piú giovanile: «Se nella disperazione, come io credo, troviamo Dio e ne siamo redenti, il pessimismo leopardiano, l’ateismo leopardiano è una delle piú alte testimonianze di Dio che siano uscite dall’animo umano»[7]. Il Luporini ha corretto questa errata interpretazione nel saggio del 1947. In realtà, come io in contrasto affermai nella Nuova poetica leopardiana e come lo stesso Luporini ha ben visto successivamente, questa non era la via del Leopardi, a essa ostando la sua chiara impostazione materialistica e terrena[8].
Oltre a questi pensieri che fanno coincidere la felicità con la felicità terrena e addirittura materiale, si ritrovano nello Zibaldone numerosissimi pensieri sul piacere e sulla felicità: il piacere non riesce mai a essere interamente posseduto poiché è sempre o passato o futuro e per questo l’uomo vive sempre in stato di pena.
Sicché in un pensiero del 30 giugno il Leopardi scrive:
In ciascun punto della vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggiore sensibilità ed esercizio della vita, e viceversa. [2861][9]
L’individuo purché viva è sempre dunque in stato di pena, e tanto maggiore è il suo desiderio di pienezza di vita e di felicità, tanto piú egli è ripagato in dolore. Il Leopardi dal suo precedente forte slancio alla vitalità, alle illusioni, alle sensazioni violente, e cioè da una concezione parzialmente ottimistica, viene ora approfondendo la negazione radicale della felicità e della vitalità umane.
In un altro filone di queste riflessioni filosofiche, il poeta pone l’uomo di fronte alla società, prima alla società presente, e in qualche modo legata agli schemi di contrapposizione antichi-moderni; ma, a un certo punto, alla società tout court di ogni epoca, anch’essa incentivo all’infelicità umana; l’uomo è infelice per sua natura in quanto tende a un piacere che non può conseguire, ma lo è anche perché la società e il suo uso non lo alimentano di felicità, ma lo portano al dolore e all’isolamento.
Mai, come forse in questa fase, che poi supererà, il Leopardi approda a una specie di forte individualismo anarchico; sicché, tra i vari tentativi di agganciare il poeta ad atteggiamenti piú moderni, non sono mancati un tempo anche i tentativi di ascriverlo a prospettive di individualismo anarchico di tipo stirneriano.
In questa fase egli come certamente tocca un certo nichilismo e quasi certe forme di esistenzialismo, cosí tocca anche delle forme di individualismo esasperato: l’uomo non trova conforto e appoggio nella natura e cosí non lo trova nella società; donde l’insistenza sulla società moderna in cui avverte il sempre maggior prevalere di fronte all’«amor proprio» o «amor di sé» (che portava l’uomo, in altre condizioni storiche, al desiderio della gloria, all’esaltazione di se stesso per il bene pubblico), dell’egoismo divenuto il vincolo fatale della società e degli uomini[10].
Accanto a questi pensieri se ne svolgono altri piú profondi che portano la discussione di Leopardi a un livello meno legato alla diagnosi piú immediatamente storica, per porre in causa ogni tipo di società i cui vincoli sono sentiti come qualcosa che contribuisce non alla felicità, alla vitalità dell’uomo, ma viceversa al suo egoismo e alla sua infelicità. In un lungo pensiero (quasi un saggio) del 25-30 ottobre, sui vari tipi di società e sul modo con cui essi condizionano l’uomo all’infelicità, il Leopardi, tentando il solito ricorso a una felicità primordiale, edenica, sostenuta nell’Inno ai Patriarchi, aggiungerà che «dell’uomo in natura [...] noi pochissimo conosciamo» [3804][11].
Si tratta di un breve inciso, ma assai sintomatico del logoramento a volte minuto delle precedenti posizioni leopardiane: la situazione edenica e mitica non è piú adatta a costruire le certezze cui il poeta tendeva.
Altri pensieri sono piú direttamente legati al progredire del sensismo materialistico e al suo sempre piú forte riallacciarsi, come chiaramente avverrà anche nelle Operette morali, al pensiero dell’illuminismo materialistico dell’ultimo Settecento, ben distinto da altre versioni illuministiche che approdavano a soluzioni di tipo teistico e in qualche modo provvidenzialistico.
Il materialismo e il sensismo portano il Leopardi da una parte a continuare la vecchia lotta, diventata sempre piú inesorabile e sicura, contro ogni assoluto, ogni idea innata (quindi, anche nella stessa estetica, al rifiuto totale dell’idea del bello esistente di per sé e del bello ideale) e dall’altra, a un progressivo logoramento del suo sistema della natura anche quando, apparentemente, egli può sembrare ancora proteso a salvarne i principi essenziali.
L’uomo, costituito di essenza materiale, ha, a parte l’istinto alla felicità, una sua prerogativa fondamentale di conformabilità e di assuefazione alle circostanze ambientali, a quelle fisiche e persino climatiche (lo stesso ingegno e genio sono soltanto un frutto delle circostanze), che lo staccano dalla natura per sottoporlo a una specie di “seconda natura” dovuta appunto all’assuefazione a tali circostanze. L’uomo diventa cosí un prodotto derivato da questo fortissimo condizionamento, ma (e questo è il punto piú delicato e acuto che comincia a mettere in crisi la bontà della natura) tale condizionamento deriva dalla natura stessa che ha inserito nell’uomo simile conformabilità[12].
Il Leopardi cercherà disperatamente ancora di restringere il piú possibile le responsabilità della natura: cioè, egli dirà che essa non aveva creato l’uomo infelice, che il suo unico errore (che, si comprende bene, è un errore capitale) è quello di aver messo nell’uomo questa conformabilità, questo germe di imperfezione, questa disposizione a essere esposto alla corruzione, a uscire da quello stato naturale in cui sarebbe stato felice.
Scrive in un pensiero dell’8 settembre: l’uomo «non divien tale», cioè conformabile, e quindi esposto a tutti i dolori e all’infelicità,
[...] per natura, benché questa disposizione sia naturale: perocché essa disposizione non era ordinata a questo ch’ei divenisse tale, ma era ordinata ad altre qualità, molte delle quali affatto contrarie a quelle che egli ha per detta disposizione acquistato. Bensí s’egli non avesse avuto naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe potuto divenir tale. Questa è tutta la parte che ha la natura in ciò che tale ei sia divenuto. [3375-3376][13]
Per Leopardi dunque la natura ha fatto l’uomo in modo che egli poteva anche diventare diverso; ma si contraddice immediatamente perché riconosce che la natura stessa ha dato all’uomo questa radice di conformabilità, di imperfezione, aprendosi la strada alla radicale successiva attribuzione alla natura di tutta l’infelicità dell’uomo.
Queste riflessioni sulla colpevolezza indiretta della natura rispetto all’infelicità umana e soprattutto i pensieri sul condizionamento di ogni azione e qualità umana da parte di elementi fisici inevitabili, venivano anche a privare l’uomo di quegli elementi volontaristici sui quali, nel ciclo del ’21-22, e in particolare sulle canzoni Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, Leopardi aveva puntato: ora l’uomo, e addirittura l’ingegno e il genio, appaiono come prodotti delle circostanze e perfino del clima.
Tali pensieri indirettamente richiamano la responsabilità della natura, che ha da una parte inserito nell’uomo questo germe di conformabilità e quindi di “snaturamento”, dall’altra lo ha circondato di tali condizionamenti fisici (che evidentemente a loro volta sono pure opera della natura); e quindi l’idea della natura “madre” benigna entra sempre piú in crisi.
Accanto a questi pensieri, si può anche ricordare un pensiero sul creato, importante anche per le conseguenze su certi temi della poesia leopardiana. Precedentemente, Leopardi aveva molto insistito sui “miracoli”, sulle “meraviglie” del creato, che in qualche modo erano la prova della potenza della natura, che aveva dato vita appunto a cose cosí stupende. In questo pensiero egli conferma la sua primitiva impressione sulla stupenda opera del creato, però inserendo il tema della felicità dell’uomo, e chiedendosi: in sostanza contribuisce quest’opera mirabile a risolvere il problema piú importante dell’uomo e del vivente in genere, il problema appunto della felicità? a che serve questo creato? Cosicché egli finisce anche su questo punto per mettere in crisi il precedente entusiasmo per la bontà della natura generatrice di illusioni generose.
Scrive infine in questo pensiero del 10 luglio del ’23:
Le cose ch’esistono non sono certamente per se né piccole né vili: né anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventú, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benché grandi, e forse talora piú grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo né il fanciullo non ne è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E cosí le cose esistenti, e niuna opera della natura né dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. [2936]
Poi continua nello stesso giorno:
Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e che egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Cosí elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benché a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poiché non ci porta in niun modo mai alla felicità? Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire né conoscere o sufficientemente immaginare né i limiti, né le ragioni, né le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benché né l’esistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza cosí nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? [2936-2937][14]
Il Leopardi, mentre è preso dallo stupore per la magnificenza dell’universo, delle opere della natura, viene però insinuando questo profondo dubbio: a che serve? Sarà la domanda del pastore nel Canto notturno a cui, al di là delle stesse risposte negative di quella poesia, risponderà il poeta ancora piú decisamente nei suoi ultimi canti, come in Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, definendo la natura «illaudabil maraviglia» (v. 46). Il creato dunque è certamente qualcosa che colpisce e stupisce, ma è “illaudabile” perché non solo non porta al bene, ma «per uccider partorisce e nutre» (v. 47). Cosí nel Dialogo della Natura e di un Islandese darà la formidabile, poetica rappresentazione della natura come una statua gigantesca di donna dal volto tra bello e terribile in cui è espresso, in forma condensata e drammatica, il concetto qui impostato.
Un ultimo punto da considerare entro questa nuova impostazione di problemi con cui Leopardi va cambiando le proprie prospettive fondamentali (passando, come si è detto, dall’antitesi natura-ragione, natura-civiltà all’antitesi natura-uomo, natura-vita dove la vita, tutta legata nel periodo precedente alla natura che generava illusioni, stimoli alla poesia, all’eroismo, alla libertà, si viene ora identificando con l’esistenza nel senso piú sopra chiarito), è appunto questa distinzione per cui la natura dà l’esistenza ma non la vita; distinzione che si fa avanti nel novembre del ’23[15] e quindi al culmine di questi intensi mesi di crisi, subito prima del dicembre, che è il mese di piú immediata preparazione delle Operette morali.
Scrive infatti a questo proposito con molta decisione: «La natura non è vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella»[16] [3936]. Si riscontri questa affermazione con la risposta data, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, dalla natura all’infelice islandese che l’assedia di domande: io mi preoccupo soltanto della legge dell’esistenza, della continuazione dell’esistenza, mi preoccupo solamente della trasformazione della materia; questa è l’unica mia responsabilità.
È un pensiero, anche questo, che il Leopardi lascia alla successiva elaborazione delle Operette morali e alle riflessioni successive a quest’opera e che tornerà ad affiorare ad altre altezze con piú forza, sicurezza e decisione.
Questa fase dello Zibaldone si presenta dunque come una fase assai importante per i futuri svolgimenti del Leopardi, ma per ora, come si è visto, si può parlare solo della crisi crescente di un pessimismo piú profondo che mette in discussione il sistema della natura e delle illusioni contro la ragione corruttrice, non certo (come si diceva un tempo) di deciso e totale passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico. Il processo è infatti molto piú lungo, piú complesso e drammatico e le conclusioni piú consolidate si preciseranno tra le Operette morali e i successivi pensieri dello Zibaldone del 1826 e in alcuni casi addirittura del 1829.
E dunque lo Zibaldone pone molti problemi capitali piú che risolverli; non offre, come da alcuni è stato detto, una materia di pensiero già tutta elaborata e risolta alle Operette morali che ne sarebbero soltanto l’espressione artistica o la stilizzazione. Anzi le Operette, che non a caso il Leopardi considerò sempre come il libro della sua filosofia, tutt’altro che innocuo e solo “artistico”, ma esplosivo e pericoloso e che poté dispiacere proprio come “filosofia” «ai preti», alla censura ecclesiastica[17], sono invece un libro insieme poetico e di pensiero, che prende posizioni su problemi supremi e che trae alimento e forza, come tutte le grandi opere poetiche, da un moto di pensiero che non traduce meccanicamente ma che porta avanti e consolida artisticamente problemi tuttora in atto, che lo Zibaldone aveva impostato ma non risolto.
D’altra parte, in questo stesso periodo, chi voglia rendersi conto dell’intero sviluppo della personalità del Leopardi (sottraendosi ai due pericoli piú vistosi, uno di considerarlo un puro artista che trae la sua poesia non si sa da dove, un poeta la cui poesia sarebbe folgorazione indifferente al suo pensiero e alla sua esperienza; l’altro di considerare le Operette morali unicamente come un nudo documento intellettuale)[18], dovrà tener conto anche di altri aspetti di questa importantissima fase dello Zibaldone del 1823, cioè di tutta quella ricca messe di pensieri riguardanti la lingua, lo stile, la poesia, che costituiscono dei settori articolati ma unitari e specificamente assai importanti, legati a esperienze concrete del Leopardi, di linguista vero e proprio, di tecnico dello stile e di grande poeta.
I pensieri linguistici hanno un vario livello di elaborazione; c’è infatti una parte piuttosto ingente di appunti valorizzati dagli storici della lingua per il loro carattere scientifico, su certe parole, su etimologie, sui caratteri di certi verbi della lingua latina, che si collegano a tutta la precedente formazione leopardiana che nel periodo romano, come si è visto, ebbe una ripresa filologica; ma ci sono anche i materiali preparati per un’opera di largo respiro, immaginata ma non realizzata, il Parallelo delle cinque lingue, che doveva dimostrare fra l’altro l’originaria unità di tutte le lingue. Tali pensieri si collegano ad altri aspetti del pensiero leopardiano di questo periodo, per cui la lingua è continuamente riportata alle condizioni storiche, politiche, climatiche delle singole nazioni: si ricordi l’idea del condizionamento delle circostanze sull’uomo e sul suo pensiero, e il rapporto istituito fra la lingua e la letteratura della Spagna e dell’Italia e la loro decadenza politica e nazionale.
Scriveva infatti il poeta in un pensiero del 30 giugno: «Ogni lingua perfetta è la piú viva, la piú fedele, la piú totale immagine e storia del carattere della nazione che la parla, e quanto piú ella è perfetta tanto piú esattamente e compiutamente rappresenta il carattere nazionale» [2847][19].
Ma questi pensieri linguistici interessano anche per la loro forma tutt’altro che frettolosa o abbozzata, anzi serrata, consequenziaria, estremamente analitica, che tende a tradurre il pensiero in tutte le sue minute articolazioni senza perderne alcun particolare; essi sono dunque intimamente collegati all’impegno di scrittore del Leopardi che intendeva foggiarsi uno strumento linguistico moderno, tale da permettergli di esprimere tutte le sue concezioni filosofico-poetiche, aperto ai contemporanei e ai loro problemi, ma che insieme avesse dietro la forza della tradizione letteraria della lingua italiana.
Naturalmente questo ideale di prosa rientra anzitutto nella prospettiva della poetica personale con cui Leopardi si apprestava a comporre le Operette morali, ma rientra anche in un ambito piú generale. Leopardi prosatore intende infatti assolvere a una missione di scrittore e riflettere le esigenze di un possibile scrittore italiano contemporaneo.
In un importante pensiero del 1-2 settembre, partendo dal paragone fra la situazione dello scrittore italiano e quella di scrittori di altri paesi moderni, il Leopardi scrive:
Un francese, un inglese, un tedesco che ha coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta, imparata la quale ei non ha che a servirsene. [...] Ben diverso è oggidí il caso dell’Italia. Come noi non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua illustre e propria ad essere scritta non è mai scompagnata dalla letteratura, e segue sempre le vicende di questa, e dove questa manca o s’arresta, manca essa pure e si ferma; cosí fermata tra noi la letteratura, fermossi anche la lingua, e siccome della letteratura, cosí pur della lingua illustre si deve dire, che noi non ne abbiamo se non antica. Sono oggimai piú di centocinquant’anni che l’Italia né crea, né coltiva per se verun genere di letteratura, perocché in niun genere ha prodotto scrittori originali dentro questo tempo, e gli scrittori che ha prodotto, non avendo mai fatto e non facendo altro che copiare gli antichi, non si chiamano coltivatori della letteratura, perché non coltiva il suo campo chi per esso passeggia e sempre diligentemente l’osserva, lasciando però le cose come stanno [...]. [3318-3320][20]
Da una parte c’è qui una posizione polemica che rimanda anche ad altri pensieri tra cui quello del 27 maggio 1823, in cui il Leopardi accusa il Bembo di aver formato la lingua sugli esempi di Petrarca e di Boccaccio e polemizza contro i pedanti cruscanti, i puristi, che volevano restringerla alle posizioni fissate dal Bembo e ai termini di una perfezione già attuata soprattutto nel Trecento, producendo una “stagnazione” della lingua, che coinvolge la letteratura italiana, non piú originale, non piú feconda di scrittori capaci di rinnovarla[21]. D’altra parte, qui è analizzata la situazione dello scrittore italiano del suo tempo, cioè praticamente la sua propria situazione, perché questi pensieri vanno soprattutto visti in rapporto a ciò che il Leopardi si impegnava ad attuare nella prosa artistica.
Egli dice, riferendosi alle letterature europee:
Elle sono sorte, e in breve spazio hanno avanzato e passato i termini da noi già tocchi, e il progresso universale della letteratura e delle cognizioni umane ne’ centocinquant’anni ultimi è stato cosí rapido e cosí grande, ch’egli equivale per cosí dire a quello fatto per tutti i secoli addietro infino all’epoca nominata. Ciò singolarmente si può dire in quanto alla filosofia, la quale rinata dopo la detta epoca, e tutta nuova, fa parere piú che pigmea la filosofia di tutti gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de’ moderni; ella regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna; ella ne è la materia e il subbietto; ella in somma è il tutto oggidí negli studi, e in qualsivoglia genere di scrittura; o certo nulla è senza di lei. [3321]
Si osservino in questo passo le implicazioni non solo letterarie e linguistiche, ma anche di carattere piú generale, come l’affermazione cosí interessante sull’importanza (anche se magari piú distruttiva che positiva) della filosofia moderna di fronte alla quale la passata appare addirittura pigmea; di questa filosofia moderna che nel Settecento dal razionalismo all’illuminismo e all’illuminismo materialistico, è diventata il nervo stesso della letteratura. Il pensiero citato cosí continua:
Fra queste generali vicende e questo progresso della letteratura, l’Italia [...] nulla ha fatto per sé. Gli scrittori alquanto originali ch’ella ha prodotti in questo tempo [...] non sono stati sufficienti, né per originalità né per numero, a darle una lingua nazionale moderna, nello stesso modo ch’ei non sono stati sufficienti a fare ch’ella avesse una letteratura moderna nazionale.
E quanto alla lingua, l’insufficienza loro a far che l’Italia n’avesse una moderna sua propria, è venuta principalmente da questa cagione. Trovando interrotta in Italia la letteratura, essi hanno trovato interrotta la lingua illustre; antica quella, antica ancor questa. Una lingua antica non può esser buona a dir cose moderne, e dirle, come devesi, alla moderna: né la nostra lingua in particolare era buona ad esprimere le nuove cognizioni, a somministrare il bisognevole a tanta e sí vasta novità. Introducendosi fra noi appoco appoco la notizia delle letterature e discipline straniere, que’ pochi italiani ch’eccitati da queste nuove cognizioni si trovarono un capitale di mente da poter loro aggiungere qualche cosa di loro; quei molti piú che invaghiti della novità, o mossi da qualunque altro motivo, deliberarono, senza però aver nulla di proprio da scrivere, d’introdurre o divulgare, come si doveva, in Italia i nuovi generi, le nuove letterature e discipline, la nuova filosofia, anzi per meglio dire, la filosofia [si noti sempre questo puntare sulla filosofia, identificata ad un certo punto con quella illuministico-materialistica], non bastando a ciò la lingua italiana antica, intieramente la dismessero, e come di facoltà e di pensieri, cosí di lingua andarono a scuola dagli stranieri [...]. [3321-3323]
Il Leopardi nota che i nostri scrittori, che pure avvertono la novità delle letterature straniere e della filosofia contemporanea, quando cercarono di portare qualcosa di proprio, dismisero la lingua italiana; di qui la battuta sul loro “invaghimento della novità”. Ché il Leopardi è stato sempre pronto a cogliere le differenze tra le persone che hanno dei problemi seriamente nuovi e quelle che semplicemente si “aggiornano” alla novità, come chiaramente è detto in queste parole: questi aggiornatori, fossero solo dei curiosi, o fossero delle persone piú profonde, si trovarono uno strumento insufficiente in mano, e non potendo adoperare la lingua nazionale perché rimasta allo stato antico e quindi incapace a poter esprimere le cose moderne, andarono a scuola dagli stranieri. La polemica serrata di Leopardi si profila da una parte contro i puristi, i pedanti, che credevano di poter dire cose nuove con una lingua vecchia; dall’altra, pur comprendendone le ragioni, contro quegli scrittori italiani che per dire cose moderne finivano per accettare la lingua altrui.
Di qui la difficilissima situazione dello scrittore italiano che ha dei problemi effettivi, filosofici da esprimere e che d’altra parte vuole esprimerli in una lingua concreta, nazionale, capace di avere una sua virtú artistica:
Noi abbiamo una lingua; antica bensí, ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma colma d’ogni sorta di pregi; perocché abbiamo una letteratura, antica ancor essa, ma vasta, varia, bellissima, abbondantissima di generi e di scrittori, splendidissima di classici, durata per ben tre secoli e piú, tale che rispetto all’età ch’ella aveva quando fu tralasciata, l’età che hanno presentemente l’altre letterature, è affatto giovanile. [3324][22]
Quindi il Leopardi propone di non seguire né l’esempio dei cruscanti, che volevano adoperare la lingua antica incapace di esprimere cose moderne, né quello dei francesizzanti, che avevano accettato la lingua altrui o direttamente, o con un certo adattamento dell’italiano alle forme straniere; di fronte a essi egli propone un programma di “rimodernamento” della lingua antica di cui la moderna deve essere una continuazione, anzi l’antica medesima continuata, arricchita, portata alle moderne esigenze. Un impegno strenuo e pieno di difficoltà, come lo stesso Leopardi sottolinea:
Ella è cosa certa che la vera cognizione e padronanza di una lingua come l’italiana, domanda, per non dir troppo, quasi una metà della vita, e dico di quella cognizione e padronanza ch’è indispensabile a chiunque debba veramente ristorarla. [3330]
Un complesso programma che richiede per rimodernare la lingua italiana il totale ed enorme possesso della lingua antica, a cui bisognerebbe dedicare metà della vita, ma non scisso, anzi congiunto col possesso della scienza e della cultura, che richiede paradossalmente tutta la vita: il Leopardi non è mai un puro linguista o un puro stilista, ma sempre insieme un integrale uomo di cultura, anzi un filosofo, come dice egli stesso:
Ma la scienza, la sapienza, lo studio dell’uomo, non domandano tutta la vita? e quella immensa moltiplicità di cognizioni piccole e grandi, quella universalità che si richiede oggidí quasi generalmente a ogni uomo di lettere, ma ch’è sommamente necessaria al filosofo [...] domandano poca parte di tempo? [3330-3331][23]
Quest’ultimo pensiero sull’enorme impegno richiesto allo scrittore italiano moderno, ci apre alla rapida considerazione di un altro filone di pensieri che riguardano piú propriamente lo stile, e anzitutto al pensiero del 30 maggio 1823, molto citato:
Chiunque si è veramente formato un buono stile sa che immensa fatica gli è costato l’acquisto di quest’abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò, quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e finalmente l’arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta difficoltà è giunto a riconoscere e sentire ne’ grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare, e che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensí la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza l’arte. [2725-2726]
Il Leopardi mette qui in rilievo quello che egli poco dopo definisce: «La scienza del bello scrivere è una filosofia, e profondissima e sottilissima, e tiene a tutti i rami della sapienza» [2728][24].
A questo si raccordano altri pensieri che ci mostrano con chiarezza come il Leopardi si preparasse profondamente alla complessa elaborazione delle Operette morali. La sua prospettiva polemica contro i contemporanei si muove su due fronti: da una parte infatti egli punta sulla valorizzazione dello stile contro ogni tentazione di puro contenutismo privo di attenzione alla realizzazione artistica, caratteristica dei romantici; dall’altra, contro le tentazioni diremo formalistiche, di puro stile, egli oppone la necessità della profondità e della novità di pensieri che nutrono lo stile.
Per l’importanza risolutiva dello stile, va segnalato il pensiero del 19 giugno che parla della difficoltà per uno scrittore, che abbia speso «immense fatiche» per dare ai suoi scritti «la bellezza della lingua», ad avere un effettivo riconoscimento sia tra gli stranieri, i quali, non conoscendo perfettamente la lingua, non possono gustare attraverso le traduzioni le sottili sfumature dello stile, sia tra i connazionali, che, inesperti nello scrivere la propria lingua, non possono giudicarne gli stili. Tale pensiero sviluppa a fondo la considerazione che un’opera validissima per le cose che dice e i problemi che agita, se però è priva di realizzazione artistica e stilistica si svaluta anche nel contenuto. Scrive il Leopardi:
Dunque neppure i pregi dello stile di un perfetto scrittore possono esser valutati dagli stranieri, e tanto meno quanto egli è piú perfetto, divenendone i pregi del suo stile come oggetti finissimi che sfuggono interamente alle viste deboli e ottuse, laddove se essi fossero stati piú grossolani sarebbero potuti esser veduti. Ora quanta parte di un’opera è lo stile! Togliete i pregi dello stile anche ad un’opera che voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne potete piú fare. [2797-2798][25]
Ma questa esaltazione dei pregi dello stile, attraverso la mediazione del pensiero del 16-17 luglio[26], è implicitamente limitata, per altre esigenze polemiche, dal pensiero del 9 settembre:
Molti presenti italiani che ripongono tutto il pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppur concepiscono, la novità de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti; e non avendo né pensieri, né immagini, né sentimenti, tuttavia per riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici: questi tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo negherebbero schiettamente o implicitamente; ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può né possedere un buono stile poetico, né tenerne l’arte, né eseguirlo, né giudicarlo nelle opere proprie né nelle altrui; che l’arte e la facoltà e l’uso dell’immaginazione e dell’invenzione è tanto indispensabile allo stile poetico, quanto e forse ancor piú ch’al ritrovamento, alla scelta, e alla disposizione della materia, alle sentenze e a tutte l’altre parti della poesia [...] Onde non possa mai esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, né possa aver mai uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudine di sentimento di pensiero di fantasia, d’invenzione, insomma d’originalità nello scrivere. [3388-3389][27]
Il Leopardi qui è veramente arrivato a una estrema densità di pensiero nel concepire l’opera poetica, non priva di insegnamento anche per una odierna critica, che veda unilateralmente separato il movimento dell’invenzione dei nuclei poetici che sorreggono un’opera, da quello della loro traduzione stilistica, in cui non manca mai la presenza dei temi di fondo. Egli polemizza soprattutto contro i classicisti italiani del tempo (con un chiaro riferimento al Monti, che in questo periodo continuamente attacca come poeta tutto affidato allo stile in senso astratto), soprattutto perché vede inseparabili l’invenzione e l’esecuzione artistica dell’opera letteraria, là dove dice che uno scrittore non può possedere un buono stile poetico senza la forza interna di un pensiero e un sentimento originali.
Di questo senso molto alto e molto intero della poesia e della letteratura con cui il Leopardi si preparava con piena maturità e fortissima consapevolezza alla costruzione delle Operette morali, danno prova anche i pensieri sulla poesia che anzitutto vanno valutati all’interno dello sviluppo leopardiano, ma dei quali non si può non avvertire la fertilità di indicazione, di avvertimenti profondi proprio sul senso della poesia, che ne fanno un contributo tra i piú alti alla meditazione sulla poesia.
Per giudicare del valore di questo filone di pensieri vanno senza dubbio evitati due errori e cioè di chiedere al Leopardi formulazioni sistematiche di estetica o una definizione della poesia in sede teoretica, definizione che al Leopardi non importava affatto ricavare, curandosi egli solo del sentimento della poesia, dei suoi effetti nel lettore, della sua origine nel poeta; l’altro errore, piú evidente, è quello di considerare queste meditazioni come precorrimenti dell’estetica crociana alla cui luce poi vengono giudicati, fino a ritenerli erronei o deficienti se non si inquadrano in essa.
Nei pensieri sulla poesia di questo periodo il Leopardi non si occupa, come aveva fatto nella fase di preparazione del ciclo di canzoni del ’21-22, della poesia, dello stile dei poeti lirici. Ora la sua attenzione viene spostandosi sui poemi, sulle opere organiche e architettoniche, le tragedie, i drammi, appunto con la prospettiva di un’opera organica, cui il Leopardi teneva, proprio come libro costruito, come sarà il libro delle Operette morali anche se articolato in singole composizioni.
Si può anzitutto ricordare il lungo saggio comparativo fra l’Iliade e la Gerusalemme liberata, che mostra anche le notevoli qualità d’intervento del Leopardi su un problema critico di fondo. Omero nell’Iliade ha perseguito un intento legato alla sua posizione storica e personale; cioè, ha espresso da una parte l’idea dell’eroe vittorioso e fortunato, Achille, l’eroe della lingua e della civiltà greca, e dall’altra la compassione per l’eroe straniero e vinto, Ettore, pervenendo cosí a un’unità per contrasto, che è la molla stessa della poesia; un’unità piú ricca e poetica di quella che i cinquecentisti vi ricercavano, in base alle regole pseudoaristoteliche, nell’azione predominante di un solo personaggio.
In proposito è da citare questo passo: Omero desta
[...] quel vivo contrasto di passioni e di sentimenti, quella mescolanza di dolore e di gioia e d’altri similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e agli altri, e ne moltiplica le forze, e cagiona nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma. [3139][28]
Ancora in questo pensiero-saggio, e poi nel pensiero sui drammi “a lieto fine”, che secondo lui sarebbero contraddittori, perché con il lieto fine spengono la tensione e la drammaticità presente in un dramma tutto tragico, il Leopardi dice sull’effetto della poesia:
L’effetto poetico si è che un dramma cosí formato [cioè un dramma interamente tragico] lascia nel cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll’animo agitato e commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi spento a furia d’acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma, produce un effetto grande e forte, un’impressione e una passion viva, né la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e l’effetto è durevole e saldo. Or che altro si richiede al totale di una poesia, poeticamente parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? [...] una poesia che lascia gli affetti de’ lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta né commozione alcuna? e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, cosí o cosí, ma sempre commuover gli affetti? [3454-3456][29]
Il Leopardi dunque insiste sul fatto che l’effetto della poesia in genere è un effetto energetico: la poesia non rasserena né calma l’anima, ma viceversa la muove in profondo.
Qui egli, ormai lontano dalle sue idee precedenti sulla poesia direttamente pragmatica, che spinge direttamente all’azione o a certe azioni, è giunto a un’idea piú profonda: la poesia agita l’animo del lettore proprio nelle sue scaturigini piú interne, lo muove a qualcosa di piú profondo che può essere ansia indiscriminata di nuova poesia o di azione.
Sono pensieri molto importanti e che senza dubbio portano assai lontano da un tipo di poesia descrittiva o idillica, o da precorrimenti di poesia pura o di lirica pura; e gli stessi pensieri piú tardi del ’27 e ’28 sulla lirica, sulla Divina Commedia come «lunga Lirica»[30], che potrebbero sembrare pertinenti quasi a un precorrimento di certe nozioni della lirica in senso moderno, sono da vedere anche in rapporto a questi precedenti pensieri, che li caricano di un senso della poesia tutt’altro che rasserenatore delle passioni dell’animo.
Su questo forte effetto poetico, che deriva dal contrasto fra i personaggi concreti, non interamente buoni né interamente malvagi, Leopardi insiste anche in altri pensieri: nei personaggi della Gerusalemme liberata e dell’Eneide (il pio Goffredo, il pio Enea) egli vede una certa tendenza all’astrazione, priva della natura complessa e quindi del forte effetto poetico che hanno i personaggi omerici, veri uomini concreti[31].
In un pensiero riferito in questo caso alle arti figurative, in contrasto con una affermazione di Madame de Staël, il Leopardi insiste sul fatto che, anche a parità di perfezione, ha un effetto molto piú intenso, artistico e poetico, una statua che abbia in sé qualcosa di piú mosso, quasi di tormentato che non una statua che riposa in perfetta calma[32]. Dove si può notare il solito distacco del Leopardi dalle affermazioni piú generali di tipo neoclassico (la nobile calma), a cui molto spesso anche scrittori romantici come la Staël, quando si occupavano di arti figurative, sostanzialmente aderivano.
Va qui ricordato anche un pensiero assai suggestivo e molto profondo sul coro delle tragedie greche, che tra l’altro può condurre a capire meglio la funzione del Coro di morti che si trova nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Il Leopardi afferma che i tragici greci usavano il coro come una delle parti piú suggestive dei loro componimenti, perché attraverso il coro esprimevano una specie di voce anonima e collettiva e perciò in qualche modo tanto piú profondamente poetica, dato che l’individuo singolo è sempre piú limitato rispetto a questa specie di coscienza corale, che pur fatta di tanti singoli uomini (ognuno di per sé misero e disprezzabile), nella sua coralità attinge come a una coscienza piú profonda e piú “vaga”, suggestiva, profonda, capace di esprimere verità essenziali alla generale condizione umana:
[...] questo attore ignoto, innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o sublimi riflessioni sugli avvenimenti ch’erano passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie dell’umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta dell’innocenza e della virtú, la sola vendetta che sia loro concessa in questo mondo, cioè l’esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle medesime [...]. [2806-2807][33]
È una posizione, quella che scaturisce da questi pensieri (in cui il Leopardi non accetta la via piú consueta della poesia come serenità, come purificazione, come catarsi, ma postula nella natura e negli effetti della poesia qualcosa di piú intenso e di piú complesso e tale da provocare sempre ulteriore vita poetica e non solo poetica) che trova delle analogie con il grande lirico tedesco Hölderlin per il quale «la poesia è quella in cui tutte le forze sono in movimento» (si ricordi quel «gorgogliamento» di cui parlava il Leopardi nel pensiero citato sull’Iliade).
Analogie, si badi bene, non certo concordanze e tanto meno derivazioni, perché, semmai, per certe piú storiche derivazioni, bisognerebbe rifarsi a certe estetiche e poetiche settecentesche fra Gravina e Conti o a certi aspetti del sensismo del Beccaria e del Verri.
Infine, tema di grande centralità nello Zibaldone del 1823 è la riflessione sul rapporto tra filosofia e poesia. Già nello stesso Zibaldone precedente alle canzoni del ’21-22 si poteva osservare un certo passaggio del Leopardi da una tesi piú pertinente al suo sistema della natura (inimicizia e assoluta inconciliabilità della natura con la ragione, della filosofia con la fantasia)[34] a quel singolare pensiero in cui egli stabiliva che si può essere sommo filosofo anche «poetando perfettamente»[35]. Ma in quella fase un simile pensiero assumeva soltanto il valore di una formidabile eccezione alla regola. Ora, in questa fase del ’23 e nella prospettiva che conduce alle Operette morali, si trovano alcuni pensieri in cui il Leopardi ritorna su questo tema e insiste sul fatto che tra le due attività, filosofica e poetica, c’è singolare affinità, non piú assoluta diversità e inimicizia; anzi esse sono:
[...] le facoltà piú affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi né l’uno né l’altro non può esser nel gener suo né perfetto né grande, s’ei non partecipa piú che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione. [...] La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le piú nobili e le piú difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano. [3382-3383][36]
È un avvicinamento assai significativo: il Leopardi non accetta né la via del primato della filosofia, né quella del primato della poesia; le vede come sullo stesso piano, come le sommità delle attività umane, come le facoltà piú affini fra loro. E un simile pensiero non può non ricondurre alle intenzioni leopardiane rispetto alle Operette morali, un’opera in cui egli tendeva a far vivere il piú possibile insieme queste due somme attività dello spirito umano.
È notevole a questo proposito anche un pensiero su Platone, che il Leopardi combatteva in sede filosofica (anche in alcune lettere del ’24-25) come costruttore di un sistema metafisico a cui egli era contrario, ma che tuttavia lo interessava in quanto era stato insieme filosofo e poeta nei suoi dialoghi, che gli apparivano come un altissimo esempio dell’accordo di queste due facoltà: «Platone [...] ardí concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l’esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel suo stile, nelle sue invenzioni ec. cosí poeta come tutti sanno» [3245][37].
1 Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo cit.
2 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 687-688.
3 Tutte le opere, II, pp. 793-794.
4 Tutte le opere, II, pp. 872-875.
5 Tutte le opere, II, p. 984.
6 Cfr. K. Vossler, Leopardi cit.
7 Cfr. C. Luporini, «Il pensiero di Leopardi», in Aa.Vv., Studi sul Leopardi, Livorno, Belforte, 1938, pp. 43-69.
8 Cfr. W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947 (nuove edd. accresciute Firenze, Sansoni, 1971 e 1984).
9 Tutte le opere, II, p. 722.
10 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 823-825, 828-829, 857-858.
11 Tutte le opere, II, p. 953. Circa la posizione dell’uomo nella società si vedano i pensieri alla p. 943 ss.
12 Cfr. Tutte le opere, II, p. 731 ss., 802-803, 825 ss., ecc.
13 Tutte le opere, II, p. 843.
14 Tutte le opere, II, pp. 740-741.
15 Cfr. ad esempio Tutte le opere, II, pp. 969, 995-997, 1000.
16 Tutte le opere, II, p. 1000.
17 Cfr. la lettera a Luigi De Sinner del 22 dicembre 1836, in Tutte le opere, I, p. 1415.
18 In questo errore cadde lo stesso De Sanctis che definí le Operette «il momento dell’intelletto e non del cuore».
19 Tutte le opere, II, p. 719.
20 Tutte le opere, II, pp. 829-830.
21 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 690-691.
22 Tutte le opere, II, pp. 830-831.
23 Tutte le opere, II, p. 832.
24 Tutte le opere, II, p. 691.
25 Tutte le opere, II, p. 706.
26 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 749-751.
27 Tutte le opere, II, p. 846.
28 Tutte le opere, II, p. 786.
29 Tutte le opere, II, p. 862.
30 Tutte le opere, II, p. 1195.
31 Cfr. Tutte le opere, II, p. 896 ss.
32 Cfr. Tutte le opere, II, p. 1034.
33 Tutte le opere, II, p. 708.
34 Cfr. in particolare Tutte le opere, II, pp. 357-358 (26 giugno 1821).
35 Cfr. Tutte le opere, II, p. 400 (24 luglio 1821).
36 Tutte le opere, II, p. 845.
37 Tutte le opere, II, p. 812.